È passato tanto tempo dal 1964. In quell’epoca Stati Uniti e Unione Sovietica entravano nel vivo della competizione per “la conquista dello spazio”, in Vietnam si combatteva duramente già da qualche anno, il Bologna di Bulgarelli vinceva il campionato di calcio in un inedito spareggio a Roma contro l’Inter e a Tokio si tenevano le Olimpiadi estive. Venivano inaugurati il Traforo del Gran San Bernardo e l’Autostrada del Sole, moriva Palmiro Togliatti. La Rai, con la televisione in bianco e nero, celebrava il suo primo decennale nella vita degli Italiani mandando in onda sceneggiati come “I miserabili” o “Le inchieste del commissario Maigret”.
Gli intellettuali avevano davanti agli occhi un mondo vario e in veloce evoluzione. In questo contesto Umberto Eco, scrittore e semiologo di fama mondiale, pubblicò un saggio dal titolo “Apocalittici e integrati” in cui si interrogava sulle cause e gli effetti della comunicazione di massa. Un lavoro divenuto celebre che sottolineava come alcuni bisogni della popolazione in termini di fruizione di contenuti venissero veicolati dall’alto. La divisione era tra apocalittici, che condannavano senza mezze misure la comunicazione di massa nelle sue declinazioni varie (televisione, musica, cinema, ecc.), e integrati che invece la accoglievano senza porsi problemi di tipo etico o morale.
Non è il mezzo che determina il tipo di contenuto, ma il modo in cui lo si usa, sosteneva Eco nel 1964, aggiungendo che il ruolo degli intellettuali era quello di orientare i mezzi verso una promozione culturale consapevole.
Evidentemente è passato tanto tempo anche per Eco, che non più tardi dello scorso anno – tornando sull’argomento comunicazione di massa e spostandolo su quello stravolgente nuovo mezzo di scambio e produzione di informazioni che è la rete di internet – definiva apocalittici coloro che criticano internet perché introdurrebbe un impoverimento di idee e di cultura, e integrati quelli che lo usano senza farsi troppe domande.
Fino a qualche giorno fa, quando Eco ha aggiustato di nuovo il tiro per dire senza mezzi termini che i media sociali promuovono una massa di imbecilli a detentrice della verità attraverso la diffusione virale di notizie false e non verificate.
Che il problema delle “bufale” sia un fatto con il quale doversi misurare non lo scopre certamente Eco in questi giorni. Il punto sul quale forse l’intellettuale avrebbe potuto riflettere maggiormente e regalarci le sue intuizioni è la modifica del ruolo dei cittadini, che da fruitori passivi stanno trasformandosi sempre più in attori della comunicazione, decidendo cosa veicolare e cosa no. Un cambiamento storico, certamente non privo di pericoli e storture, ma in grado di sottrarre potere a un’èlite, politica o culturale che sia. Pensare la questione sia connessa strettamente alla rete di internet significa ignorare che il problema riguarda qualsiasi sfera della comunicazione umana. Sappiamo ad esempio come il discorso del ritocco delle immagini abbia attraversato tutta la storia della fotografia e quanto non sia il frutto recente dell’introduzione della tecnica digitale; nei libri di scuola la narrazione della storia è spesso soggetta alle scelte degli editori. Quali eventi storici riportare e quali omettere per fornire una preparazione culturale ai nostri figli?
A proposito di “bufale”, forse Eco potrebbe ricordare un celebre articolo di Tommaso Besozzi, cronista del giornale siciliano L’Ora, all’indomani della morte di Salvatore Giuliano, il bandito divenuto leggendario in quegli anni di ricostruzione del paese. Besozzi non credette alla versione fornita ai giornalisti dai carabinieri in cui si raccontava di un conflitto a fuoco. Scrisse un articolo pieno di dubbi sulla storia ufficiale dal titolo: “Di sicuro c’è solo che è morto”. All’epoca non esistevano né la televisione né internet.